Racconto: Sergio D’Amaro

Melodiosi vinili

di Sergio D’Amaro

Partivano missili. E altri sembravano arrivare misteriosamente da mondi ultraterreni, lasciando tracce sospette e avvistamenti allarmanti. Erano anni che se ne parlava e si accumulavano dossier, relazioni, articoli, interviste a chi aveva avuto la ventura di avvicinare o di essere raggiunto dalla presenza di esseri inaspettati. Invece di continuare a guardare la luna come lo specchio riflettente di ogni fantasticheria o la meta privilegiata di occhi malinconici, si concepivano figure di mondi molto più lontani, che rischiavano di trasformarsi più in incubi che in piacevoli plaghe di sconfinamento sentimentale. Qualcuno meno avveduto aveva pensato addirittura di tenersi aggiornato seguendo cronache e analisi su riviste diventate subito popolari, comparse in tutte le edicole e nelle giornalerie a decine di copie. Si trattava evidentemente di una fuga collettiva, di una partenza inadeguata della propria intelligenza al di là della troposfera.

Ritrovarsi, allora, in casa davanti al pickup del giradischi Marelli poteva significare ritornare con i piedi sulla terra e affidare al piatto girevole la funzione di ben altra rampa di lancio per i sogni più diversi. I dischi neri di vinile odoravano di slanci terrestri e contenevano nei microsolchi il codice di una crescita che si sarebbe fatta nel tempo. Non una fuga, non la paura, non la curiosità morbosa di altri mondi, ma l’attesa, l’identificazione, il raggiungimento di un più vero sé attraverso continue corse lungo la schiena delle inquietudini. Tastare millimetro dopo millimetro l’anima, verificare nelle scariche elettriche di quella miracolosa trasformazione in suono la consistenza di un’immagine e la possibile tenuta di alcuni conseguenti fotogrammi. Come il contadino con l’aratro, così col pickup si sarebbero potute portare alla luce zolle faticose di terra e gemme nascoste di generosa coltivazione.

Quando il piccolo braccio elettromagnetico fece risuonare Le bateau di Jocelyn Travaillat, Mirko Sensini stava osservando la volta della sua camera, le cui pareti erano tutte ricoperte di poster, fotografie, frasi memorabili con firme illeggibili, locandine cinematografiche. Un vero e proprio arsenale pop, da usare come armatura contro le offese della realtà lastricata di cocci di vetro e di ciottoli roventi. Mirko faceva roteare lentamente gli occhi, passando da una parete all’altra, cercando di cogliere in frammenti di colore e in macchie di immagini una risposta da cartomante. Alla fine si fermò su un punto più alto e individuò distinto al centro della volta la raffigurazione di una scena. Misteri di vecchie case rimesse a nuovo, eppure quei profili disegnati erano rimasti intatti per decenni sovrastando chissà quanti moti alterni del cuore e della mente. Due metri più in basso si erano succedute tre generazioni della schiatta Sensini, crescendo in ambizione o arrendendosi all’evidenza di un caso avverso. Lassù in alto quel che si distingueva era un San Giorgio che trafigge il drago e rende libera una giovane donna incatenata e terrorizzata dalla minacciosa violenza del mostro. Simboli eloquenti, scelte decisive, passaggi ad una vita più giusta e più ricca.

Fu tutto questo, evidentemente, che sedusse Mirko e lo tenne avvinto a quella visione con una curiosità insaziabile, alla ricerca di una verità nascosta dietro le linee mosse della decorazione pittorica. Chissà quante volte aveva sentito parlare di San Giorgio, senza che vi prestasse un grammo di attenzione e finendo per relegare tali storie nella serie infinita delle leggende medievali. Ma quel giorno si era rivelato diverso e anche quella piccola composizione fatta per ingenuo abbellimento finiva per avere una sua funzione rivelatrice.

In realtà, lo sguardo riflessivo di Mirko veniva incoraggiato dall’intensità della melodia sgorgante dalle note della canzone di Jocelyn Travaillat. Il dondolìo della barca al pontile veniva tradotto attraverso la dolcezza del pentagramma, che poi però improvvisamente si apriva ad un precipitare di suoni più acuti, che dicevano di una

lacerazione insopportabile. E la voce di Travaillat si oscurava e si tendeva, si caricava di energia e poi si decantava, o sembrava decantarsi, in un calando disperato.

Era la stessa altalena che stava toccando l’animo inquieto di Mirko. Sicché tra suoni usciti dal giradischi Marelli e visione del San Giorgio sulla volta, egli poteva sintetizzare gran parte della sua vita più recente. Riandava così a tre anni prima, a quando aveva conosciuto Wanda ad una festa per il compleanno di una comune amica. Si erano subito reciprocamente piaciuti, e subito si erano incamminati sulla strada dei progetti frenetici e delle supposte felicità. Poche divergenze e molti chilometri toccati a Mirko per raggiungere periodicamente la sua amata a Pietrapolia, giusto alle falde dell’Appennino, e rinsaldare il legame messo alla prova dall’effettiva distanza.

Ma poi davvero il desiderio va dove va il vento? E se nel cielo fossero scritti due o tre destini diversi, avrebbe tentato Mirko di percorrerne soltanto uno? Gli esseri umani, pensava, sono come una girandola esposta sul balcone o una barca lasciata libera alle onde: sono volubili, opportunisti, mentitori, e se seguono un principio lo fanno per sbaglio o per distrazione. Ed esistono, meno male, i sentimenti nobili, le intenzioni immacolate, le verità incontrovertibili. L’amore rafforza, ma può anche precipitarti in un gorgo, ti esalta ma è anche capace di ridurti ad una cane bastonato. Erano stati, a pensarci bene, tre anni nutrienti, tre anni in cui l’ardore del fuoco non aveva sottomesso la ragione e anzi ne aveva puntellato qualche perno importante.

Ed ora, ecco, Mirko si trovava sul punto che significa una svolta, avendo concordato con Wanda un viaggio a Pietrapolia a fare la conoscenza finalmente della sua famiglia. Sentiva che sarebbe stata la tappa decisiva di un percorso, ed il regalo più bello che avrebbe fatto alla sua compagna.

Riproducevo le note della canzone di Travaillat. E sentivo che a qualche metro da me e dal mio comodo cuscino meccanico la mente di Mirko si tuffava nelle onde del dubbio e pesava il prima e il poi, l’eredità del passato e l’ala del futuro, vibrando ad ogni pensiero, scivolando tra le carezze che la barca faceva al pontile. E poi s’immaginava il distacco, la lancia di San Giorgio che trafigge la pelle squamosa del drago, la donna, che è Wanda, liberata dalle sue catene e il vascello che leggero solca il mare cantato da Jocelyn. Partire, ma non per quel breve viaggio del giorno dopo: partire, distaccandosi da tutto ciò che è stato, da tutto ciò che è diventato conosciuto, da tutto ciò che si possiede. Scegliere, dunque. E così fu per Mirko, dopo che l’ultima eco delle note si spense e il mio pickup svolse l’estremo solco del disco adagiandosi ubbidiente sul piatto diventato caldo.

Mirko aspettò che venisse sera e si commosse guardando dai vetri del balcone le cime degli olmi scossi dal libeccio. Il domani sarebbe arrivato puntuale, forse confortato da un altro melodioso vinile, da altri tre minuti per decidere su quale barca salpare.

 

[da La casa degli oggetti parlanti]

 

[da La casa degli oggetti parlanti]

 

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